Giornata della Memoria. Non solo storia, anche filosofia: perché la memoria è azione
L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria. (Primo Levi)
Una delle ricorrenze più importanti dal punto di vista storico ma anche civico è la Giornata della Memoria. È stata istituita il 27 gennaio, giorno in cui, nel 1945, sono stati aperti i cancelli di Auschwitz.
Da un punto di vista filosofico, secondo me, l’intitolazione della ricorrenza “Giornata della Memoria” deve stimolare in noi la riflessione. Se ci pensate, qualsiasi anniversario, per definizione, ci ricorda un particolare evento, ma in questo caso sembra volerci ricordare di ricordare, quasi come se assumesse la forma di un imperativo.
Il concetto di “Memoria” non è solo un concetto presente in psicologia ma abbraccia anche la filosofia. Il ricordo è ciò che lega l’uomo al passato e dovrebbe aiutare a impostare meglio il futuro. Secondo me, è un dovere ripensare, riflettere e ricordare proprio per non compiere più gli stessi errori del passato e quindi “migliorarci”.
Ricordare è anche ciò che permette la costruzione della propria identità personale e collettiva.
La memoria, così, deve essere concepita come un’azione che tutti noi compiamo per indignarci del male assoluto di cui l’uomo (quindi tutti noi) è potenzialmente capace.
La filosofia non è un sapere astratto, inutile e privo di concretezza, al contrario, è azione.
Qualsiasi riflessione sulla Giornata della Memoria dimostra che esiste un rapporto tra filosofia e azione in quanto il ricordare è azione.
Un altro concetto che può essere messo in evidenza in questa riflessione è quello di male.
Una persona può fare del male senza essere malvagia?
Era questa la domanda che assillava la filosofa Hannah Arendt quando nel 1961, seguiva per il New Yorker il processo per i crimini di guerra contro Adolf Eichmann: il gerarca nazista che aveva organizzato il trasporto di milioni di ebrei e non nei campi di concentramento.
Ne “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”(1963), il libro che risultò dallo studio della filosofa sul caso, Arendt arrivò a concludere che non si potesse parlare di Eichmann come di un mostro senza morale. Egli fu un uomo che compì azioni orribili, ma senza cattive intenzioni, solo per “incoscienza”, per un distacco dalla realtà malvagia dei suoi atti.
Eichmann “non capì mai cosa stava facendo” a causa della sua “inabilità a pensare dal punto di vista di qualcun altro”. Mancando di questa particolare abilità cognitiva, “commise i suoi crimini in circostanze che gli resero quasi impossibile capire o sentire cosa stesse facendo di male”. Arendt sintetizzò queste caratteristiche di Eichmann nella formula “la banalità del male”.
Egli non era intrinsecamente cattivo, ma semplicemente superficiale e inetto, un uomo che “va dove tira il vento” e si è fatto trascinare nel partito nazista in cerca di uno scopo o di una direzione e non in nome di una convinzione ideologica radicata. Il male è banale perché compiuto senza coscienza.
Quindi cosa dovremmo pensare dell’idea di Arendt che Eichamann (così come altri tedeschi) fecero del male senza essere malvagi? È una domanda complessa a cui rispondere, perché Arendt non ebbe mai l’opportunità di indagare il significato più ampio del male partendo dal caso di Eichmann in quanto non estese il suo studio a una più ampia indagine sulla sua natura.
Ne “Le origini del totalitarismo” (1951), pubblicato ben prima del processo a Eichmann, Arendt disse che “è connaturato alla nostra intera tradizione filosofica non poter concepire l’idea di un male radicale”.
Quando si è disponibili ad accettare di essere comandati da altri, quando non siamo capaci di camminare da soli, perché fiacchi, vigliacchi, privi di ogni tendenza alla responsabilità, ecco che il male trionfa. L’uomo può perdere la propria umanità, può disumanizzarsi, come già si è disumanizzato una volta e, forse, infinite volte.
L’Olocausto che rappresenta il male assoluto, si ripropone in forme celate, tragiche, nelle guerre, nel razzismo, nelle separazioni che gli uomini frappongono fra loro. Il male, se ci pensate un attimo è l’uomo stesso che, però, può trasformare il proprio progetto di vita se, guardando al passato, con l’ausilio dell’azione della memoria, denuncia gli errori del passato e del presente.
Impariamo a ragionare con la nostra testa e non a seguire la massa semplicemente perché altrimenti non siamo accettati, non dobbiamo essere un branco di caproni. Come diceva il filosofo Aristotele, l’uomo è un animale razionale, cioè dotato di raziocinio: impariamo ad utilizzarlo senza essere manipolati e nel nostro piccolo, così faremo già del bene per noi stessi ma anche per gli altri.
Hannah Arendt scrisse: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”.
E ricordiamoci che “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”. (Primo Levi)
Elisa Dipré
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